Etica e intervento sociale

Etica e intervento sociale

Parlare e discutere di etica ed intervento sociale potrebbe sembrare a prima vista una sorta di tautologia, in quanto sembra ovvio che ci sia intrinsecamente una necessità etica nella costruzione di un intervento sociale così come una necessità sociale (il sociale come una categoria primordiale di validazione) nella costruzione di un processo eticamente corretto. Eppure in nome di presunti valori morali sono state giustificate politiche sociali repressive, reclusori, istituzioni totalizzanti, divisioni tra primi ed ultimi, ghettizzazioni, guerre giuste e quant’altro… Forse allora vale la pena proporre una riflessione che parta da lontano per comprendere quali siano stati gli elementi che hanno determinato questa situazione paradossale.

L’antico parente dell’intervento sociale per secoli si è chiamato carità. Il processo caritativo, senza entrare nel merito del suo grande ed incalcolabile valore etico e sociale, è sedimentato nel tempo e ha trasmesso all’intervento sociale una concezione fortemente ambivalente improntata sulla centralità della beneficenza, la creazione di un sistema fortemente assistenziale, la costruzione di un dualismo manicheo tra buoni (che riceveranno la carità) e cattivi (“che andranno alla forca”. Cfr. Geremeck, La Pietà o la Forca). Questa antica concezione di intervento sociale ci ha contaminato e plasmato tanto che non hanno avuto grande esito le varie Guerre dei contadini (Thomas Munster) o le Rivoluzioni Francesi nel mettere in crisi questo sistema ambivalente.
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Se questo è un dato storico, dobbiamo cercare di capire quali possano essere i nuovi paradigmi per costruire una connessione sensata tra etica ed intervento sociale al fine di garantire una risposta valida alla sfida che la complessità sociale ci porta in questo nostro tempo.

Per fare ciò dobbiamo innanzitutto assumere il concetto di “etica” in una accezione positiva, come un sistema in grado di strutturare valori, a partire dalla legge naturale, dal contesto vitale degli uomini e delle donne, dall’impatto costante con il cambiamento sociale, con l’apporto di tutte le scienze e le religioni e le opzioni laiche, valorizzando e falsificando al contempo le norme condivise, promuovendo il valore aggiunto dell’epikeia (una sorta di deregulation etica) superando così il concetto di “morale”, parola che ci ricorda un processo deteriore del concetto dei valori, con un significato impositivo e normativo.

Entrando nella dimensione dell’innovazione paradigmatica della relazione etica-intervento sociale possiamo dire che in realtà noi, già dal secolo scorso, con quella che chiamerei la svolta di metà Novecento, abbiamo adottato un criterio di senso molto generale, molto problematico, ma anche molto fecondo e illuminante, che indicherei con questa espressione: il codice della dignità. Alludo alla Dichiarazione del 1948 sui diritti dell’uomo e del cittadino, ma anche alle Costituzioni democratiche elaborate in molti paesi del mondo, nonché alla Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

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Perché parlo di codice della dignità? Perché finalmente la cultura pubblica di molte società nazionali e della società umana complessivamente considerata (quindi non si tratta soltanto di una religione, di una particolare società, di una filosofia, bensì di un fenomeno di scala internazionale e interculturale, pur con tutti i limiti di allora e l’egemonia di alcune nazioni) assume per la prima volta e programmaticamente come suo vincolante riferimento di senso e d’azione un ordine di significati che ruota attorno al valore della realtà umana individuale, comunitaria e universale. Un ordine di significati (per questo parlo di “codice”, di una chiave di lettura della società e della storia) in cui più culture si sono accordate nell’affermare l’esistenza di un valore incondizionato, che è quello della dignità umana, il quale non è affatto monopolio degli stati, delle religioni, delle filosofie, di questa o di quella cultura. Quella della dignità è un’eccedenza che sperimentiamo dentro la condizione umana e che va declinata al plurale, in forma concreta, nell’attuazione dei diritti umani.
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Qual è il fondamento dei diritti umani? Perché non dovrei ammazzare qualcuno, sfruttarlo, schiavizzarlo, farlo prostituire, comprarlo o venderlo? Qual è la ragione? Spesso proprio i filosofi, se cercano le strade per una risposta, si perdono in sofismi scettici e sterili. Talora si afferma che il rispetto deriverebbe semplicemente da un atto di volontà arbitrario. Se le cose stessero così, perché mai dovrei sentirmi obbligato a questo rispetto? Nel codice della dignità non si inventa arbitrariamente, quasi fosse una fiction, ma si riconosce in verità che quello dell’essere umano e dell’umanità stessa è un valore originario, incondizionato, irrevocabile, fondante e incarnato in ciascuno. Un valore che non è prodotto, elaborato, costruito da noi, tant’è vero che la dignità umana la troviamo già in noi, in qualche modo ne siamo i portatori, ne siamo l’incarnazione, ma non l’abbiamo decisa, non la acquistiamo né possiamo venderla. È un valore originario incarnato che si declina al plurale, che deve essere tradotto in quelli che chiamiamo i diritti umani.

Che cosa è accaduto in questi decenni a questo codice? Da un lato è stato trasgredito, misconosciuto, violato, a volte usato per fare le guerre umanitarie, con tutto il carico di mistificazione che poteva subire; d’altro canto però è cresciuta una consapevolezza, una coscienza della profondità del suo ordine di significati. Abbiamo infatti imparato, su scala interculturale, almeno tre significati di questo riferimento alla dignità, che pure rimane amplissimo ed esposto a numerose controtendenze appena si cerca di tradurlo.
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Il primo tra questi attesta che la dignità è anzitutto il valore irriducibile della persona umana. In questo valore irriducibile c’è un riconoscimento che va alla persona nella sua identità profonda e non, per esempio, ai ruoli, alle gerarchie, non al merito, alle prestazioni, all’utilità, cosicché nemmeno la colpa può cancellare il dovere di rispettare la dignità di chi ha commesso qualcosa di male o di criminale. Noi occidentali, con una tracotanza divenuta abituale, crediamo di saper riconoscere automaticamente, naturalmente questo valore della persona. In realtà prevalgono per lo più le tendenze a calcolare e ridurre il valore delle persone (in verità incalcolabile, inalienabile e inacquistabile) secondo i criteri del merito, dell’interesse, della prestazione. A volte si parla di vita innocente e di vita colpevole, per cui, in questo secondo caso, magari si ripristina la legittimità della pena di morte e di quel autentico capolavoro del male che è la credenza nella “guerra giusta”. In realtà la dignità umana riguarda il bambino innocente e il “mostro” che ha commesso crimini abominevoli. Resta irriducibile. Chi commette crimine del genere certo sfigura la propria dignità, ma nessuno ha il diritto, in conseguenza del male che egli ha compiuto, di eliminarlo, di distruggerne la vita, di umiliarlo.
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C’è poi un secondo significato fondamentale che vorrei sottolineare, perché in tal modo possiamo capire che la dignità e i diritti umani non sono un parto esclusivo della cultura occidentale e soprattutto non tollerano una lettura individualista. La dignità umana è il legame interumano originario, è la nostra prima comunità di appartenenza e di radicamento. Prima della famiglia, prima dell’etnia, prima della classe sociale, prima di qualsiasi appartenenza particolare ed esclusiva, esistiamo e siamo costituiti nell’appartenenza a questo legame originario che si chiama “dignità umana”. È la relazione fondamentale da cui nessuno è escluso. Qui il punto cruciale sta nel vedere che, in questa dimensione universale di valore, è fondata un’indicazione di qualità del modo di tessere questo vivere in comunità, di assumere concretamente il legame interumano, che sia interpersonale, sociale, interculturale, mondiale. E’ l’indicazione grazie alla quale possiamo comprendere che vivere da dominati o da dominatori è indegno della nostra condizione. E’ abbastanza evidente che la dignità è violata se siamo schiavizzati, negati o eliminati. Bisogna però ammettere che è violata anche quando siamo noi a schiavizzare, a dominare, a distruggere.

Il terzo significato dischiuso dal codice assunto storicamente con la svolta di metà Novecento mostra che la scoperta e l’esperienza della dignità si danno in un processo di apprendimento e di educazione. Ovvero siamo chiamati a imparare, in noi stessi e rispetto agli altri, quali siano l’effettiva realtà della dignità e quale responsabilità essa implichi. Ai diritti umani corrispondono pertanto fondamentali doveri umani. Certo, questo processo di apprendimento è un campo di tensioni, di conflitti. Quand’è che posso veramente tradurre la dignità senza tradirla e posso farlo in modo che il mio agire non sia il misconoscimento della dignità di altri? Questo è il campo concreto in cui la dignità reclama traduzione esistenziale, sociale, culturale, politica e legislativa.
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La nostra difficoltà rispetto al tema del valore della persona e della comunità umana nella situazione attuale, compresa quella dell’azione sociale, è che siamo piuttosto, come minimo, miopi, se non accecati, in una società la cui logica complessiva riconosce sempre soltanto il valore d’uso (un bene, un oggetto mi serve per fare una certa cosa, per la sua utilità diretta, secondo una logica sovente applicata alle persone) e soprattutto il valore di scambio, cioè il valore monetario delle cose, dei beni, delle prestazioni. Una società che conosce solo il valore d’uso e il valore di scambio è eticamente, antropologicamente accecata. Perché letteralmente non vede il valore delle persone e delle relazioni, che non è evidentemente né un valore d’uso, né un valore di scambio. Dunque non ha occhi per riconoscere il valore della dignità e il valore di legame, cioè il valore dei rapporti interumani, anch’essi dotati di un valore irriducibile all’uso e allo scambio. Proprio l’esperienza dell’essere persone e dell’essere in relazione come/con persone ci insegna che la reciprocità essenziale e vitale che ci lega agli altri è il contrario dello scambio mercantile.

Se ci poniamo seriamente e sistematicamente all’interno di un codice di questo tipo, se lo assumiamo davvero come una leva di traduzione del valore e di cambiamento del reale, allora come consideriamo il mondo difficile, antagonista, variegato, sommerso, sfuggente del fenomeno specifico del disagio sociale? Mi pare che il profilo di alcune politiche riguardanti la devianza sia profondamente inadeguato. Il primo profilo a risultare tale è quello della politica della repressione. In questa ultima prospettiva si cerca di eliminare, o di sedare e di controllare, un fenomeno, senza però riconoscere il valore delle persone, di quelli che si trovano in una situazione di difficoltà, dunque senza avere occhi per i valori in gioco, che sono anzitutto le persone. Se teniamo conto di questa esigenza di permanente autenticazione dei valori, è palese che le politiche puramente repressive non vedono il valore delle persone, ma puntano semplicemente a ottenere che il fenomeno che si intende controllare e comprimere non disturbi. Naturalmente tali politiche sono anche inefficaci nella pratica, perché non riescono a sradicare il problema. Perciò esse sono chiaramente al di fuori del codice della dignità.
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C’è poi un secondo tipo di politica, che forse non è totalmente alternativo al primo. Già Marcuse sottolineava che repressione e tolleranza sono le due facce di una stessa forma di misconoscimento. Non è che siano così diverse, così opposte. Innanzitutto perché in entrambe non c’è il riconoscimento del valore delle persone, del valore del loro futuro e della società umanizzata come valore. Questa ambiguità è evidente negli atteggiamenti di tolleranza della devianza prefigurano il ritorno a “soluzioni” del passato in nome del “ripulire le strade da questo scandalo”. Questi discorsi che oggi riemergono, dalle stesse parti politiche che si levano contro gli immigrati e contro le ragioni della solidarietà sociale, non solo sono inefficaci, non solo non vedono i valori in gioco nella vita delle persone, ma riconoscono apertamente una forma di dominio e la rendono ancor più strutturale.

A me pare che rispetto all’inadeguatezza di queste logiche un elemento essenziale che ci chiede il codice della dignità sia quello di ripartire dalla libertà delle persone. La libertà è un valore primario, ma non assoluto, nel senso che va poi correlata e inverata rispetto ad altri valori. La libertà umana, in realtà, non si determina da sola, senza criteri, senza orientamento, senza senso. Una delle grandi illusioni dell’antropologia borghese moderna era quella di credere che libertà sia fare di sé qualunque cosa, arbitrariamente e senza alcun tipo di vincolo. Invece tanto una sia pur minima sapienza antropologica quanto l’ascolto attento della nostra esperienza personale ci mostrano che c’è un vincolo positivo per la libertà, che è precisamente il legame con la dignità delle persone.
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Seguendo l’impostazione che ho rapidamente delineato attraverso il riferimento al codice della dignità, quale tipo di prassi politica può scaturire? Direi una politica del riconoscimento e della restituzione.

La politica del riconoscimento è quella che sa avere occhi per tutti i soggetti coinvolti, per i loro diritti e per la possibilità di futuro di tutti, senza esclusioni, dentro una società concreta. Una politica che non sia all’altezza di questo compito e di questo metodo si dimette dalla propria natura e dal proprio compito istitutivo, poiché non svolge la sua funzione, ma è semplicemente un meccanismo selettivo di dominio per perpetuare delle situazioni di violenza, di disagio che esplodono e finiscono perfino per turbare il famoso “ordine pubblico”, quello che era il fine della politica stessa. La politica del riconoscimento non può non essere sviluppata da una pluralità di soggetti: non solo dallo Stato, quindi, ma anche da tutte le altre istituzioni, dai movimenti, dalle associazioni, dalle singole persone coinvolte. Una simile prospettiva diviene concreta e lungimirante se vengono coinvolte le dinamiche educative e di apprendimento sociale, che peraltro oggi sono fortemente in crisi perché il loro orientamento fondamentale non è verso il codice della dignità, ma verso un’altra logica, che è quella del calcolo delle persone e delle loro prestazioni sulla misura del profitto che possono rendere. Relativizzare questa logica e riportare al centro della politica, così come dell’educazione, il codice della dignità è attualmente l’unico movimento fecondo e realmente efficace che possiamo e dobbiamo promuovere.

La seconda categoria da assumere, in tale ottica, è quella di restituzione. Che vuol dire qui “restituzione”? Già nel diritto romano si prevede la restitutio in integrum, ossia la reintegrazione di un soggetto nella pienezza dei suoi diritti. In tal caso chi era stato perseguitato, incarcerato, calunniato, esiliato, espropriato si vedeva riabilitato e riammesso al pieno godimento delle proprie facoltà e prerogative civili e sociali. Praticare la restituzione in questo senso è la condizione operativa della giustizia. La giustizia stessa non si stabilisce a tavolino, così, in un contratto tra persone che partono alla pari. Ci sono moltitudini di persone che partono svantaggiate, da anni e decenni di tradizione di misconoscimento, di abbandono, di esclusione, di disperazione. L’opera protesa a praticare e a organizzare la restituzione dei diritti, anche e in modo paradigmatico nel caso delle persone che incontriamo nel mondo della marginalità, apre l’unica via per ridare respiro alla convivenza sociale, cosicché la società non sia semplicemente un vincolo fastidioso, che ci porta fatalmente a dividere l’umanità in dominati e dominatori, ma sia veramente un valore scelto, un bene comune irrinunciabile.
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